Alex Zanardi
Alex Zanardi

a cura di Momi Symon

Cover MI24 Gen-Feb 2018

 

 

Tratto da “Milano 24orenews” – febbraio 2018

 

Passione. Umiltà. Opportunità. Parole della vita, che Alex Zanardi usa spesso. Un grande sportivo, ma prima di tutto un uomo dalla storia unica e straordinaria. Quando racconta del suo incidente del 2001 in Germania, ne parla come una grande opportunità. Sembra qualcosa di pazzesco, e invece le medaglie d’oro conquistate ai giochi paralimpici di Londra 2012 e Rio 2016 e i titoli ai campionati mondiali su strada dimostrano in effetti che ha ragione lui. Alex si sente un privilegiato, sa che il fatto di chiamarsi Zanardi in parte lo ha aiutato, ma quello che più di tutto lo ha portato a vivere sempre con passione la sua vita sono la curiosità e la forza di volontà. Insieme a tanti sogni.

Alex Zanardi 2Come ci si sente ad essere un eroe, un simbolo, un mito assoluto per il mondo intero?
Non mi sento affatto un eroe. Sono consapevole che là fuori ci siano tantissime persone che hanno più meriti di quanti ne abbia io, solo che sono “meno visibili”. Credo di essere un punto di riferimento per le persone che si trovano a vivere delle difficoltà – anche di natura diversa dalla mia – e che guardandomi pensano “caspita, se ce l’ha fatta lui, ci posso provare anch’io”.

La tua è una storia straordinaria. Una sfida dopo l’altra, nella prima e nella tua “seconda vita”
Come dico sempre, mi sento davvero un privilegiato se ripenso alla mia vita, alla quantità delle cose che ho fatto. Non è una seconda vita, è sempre la stessa che cerco ogni volta di arricchire con un altro pezzetto del puzzle, un’altra esperienza. Mio padre diceva sempre: “Prendi ogni giornata come una nuova opportunità per aggiungere qualcosa al servizio della tua passione e pian piano le cose accadranno”. Ecco, credo che questa sia una grande verità per andare avanti e rincorrere i propri sogni.

Dici spesso di non essere stato uno studente modello. I tuoi genitori, come reagivano?
Ho avuto due genitori meravigliosi, che mi hanno riempito la borsa di attrezzi, metaforicamente parlando, che mi sono serviti in tante occasioni difficili nella vita. Papà Dino, che faceva l’idraulico, diceva sempre “chi copia piglia 5, ma è un buon punto di partenza”. Voleva dirmi, sii curioso, gira la testa, osserva gli altri. Copiare è il punto di partenza, poi devi fare il tuo.

Come l’hanno presa quando hai detto che volevi fare il pilota da corsa?
Avevo 11 anni quando confidai a papà che da grande avrei voluto fare il pilota di Formula 1. Lui si grattò la testa, chiedendosi “e adesso come glielo spiego che non è una cosa così facile?”. Poi, siccome io insistevo, mi disse “Sandrino, io mi rendo conto che a studiare la matematica e la letteratura non ti senta vicino alla realizzazione del tuo sogno, ma siccome è ciò che puoi fare oggi, fai quello, perché facendo bene quella cosa lì potrai infilare nella borsa degli attrezzi, che magari un domani ti serviranno a fare altro”.

Qual è stato il momento in cui hai capito che essere un pilota sarebbe stato il tuo futuro?
Fu quando mio padre mi regalò il primo go-kart. Avevo 13 anni e mi portò a Vado, sulle colline bolognesi, su quella pista che fu teatro del primo giorno di quell’avventura meravigliosa che è stata la mia carriera sportiva. Ricordo che quando abbassai la visiera del casco mi ritrovai comodissimo nella mia solitudine dentro a quel go-kart, che andava e rombava mentre tutti mi sfrecciavano davanti… Quel giorno ero nettamente il più lento in pista, ma ricordo che nonostante tutto dicevo dentro di me “andate, andate, tanto vi prendo tutti!”.

Sappiamo del tuo ritorno nel 2019 al volante di una BMW, alla “24 ore di Daytona”. Ce ne parli?
Sì. Il progetto “Road to Daytona” è stato ideato dai mei amici tedeschi della BMW. È uno degli eventi più importanti nel panorama del motorsport d’America, che è un po’ il continente dove ho trovato la mia fortuna. È una gara che mi ha sempre attratto moltissimo e vi parteciperò con un equipaggio che è ancora da definire, perché “24 ore” non me le faccio da solo. Sarà una figata provarci!

Un’altra importante sfida si chiama “Obiettivo 3”. In cosa consiste?
Lo sport, si sa, è per tutti. Quando però a confrontarsi con una disciplina è una persona disabile, tutto è maledettamente complicato perché servono ausili altamente tecnici, conoscenze approfondite e soprattutto ha costi elevati. Con obiettivo 3 vogliamo avviare allo sport quante più persone disabili possibile e poi individuarne almeno 3 per cercare le qualificazioni ai prossimi Giochi Paralimpici di Tokyo 2020. Tutto questo grazie all’importante sostegno di realtà non-profit come la Fondazione Vodafone Italia. Portare tre atleti a Tokyo diventa da un lato il coronamento finale di un lungo e complesso percorso, dall’altro la creazione di nuovi modelli positivi non solo per il mondo disabile, ma soprattutto per la nostra società.

Concludiamo con un momento che ricordi con particolare gioia…
L’esperienza di Berlino del 2015. C’era il sole e Berlino è un po’ la città della mia seconda venuta al mondo, perché proprio lì mi hanno salvato la vita il 15 settembre 2001 e in quella città ho ricominciato a vivere. È stato meraviglioso anche alle Hawaii. Ma devo dire che le corse rappresentano una bella fetta della mia storia, ma non sono di certo la parte più importante. Le mie più grandi passioni sono mio figlio Nicolò, le tagliatelle al ragù di mia madre e mia moglie Daniela… non necessariamente in quest’ordine!

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