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MATERA:

” LE GRANDI FESTE DI NATALE”

 

Matera, al via il programma ‘Vie del Natale’ Cultura, musica, mostre di presepi e di arredi e solidarietà Matera Eventi culturali e musicali, mostre di presepi artistici e di arredi, luminarie e momenti di solidarietà caratterizzeranno il cartellone di iniziative ‘Le vie del Natale’ promosso dalla Camera di commercio e dal Comune di Matera. La manifestazione è stata presentata ai giornalisti dai presidenti della Camera di commercio, Angelo Tortorelli, e dell’azienda speciale Cesp, Giovanni Coretti, dal sindaco, Salvatore Adduce, e dall’assessore al turismo, Cornelio Bergantino. Il programma coinvolge in particolare il centro storico, con 12 capanne di legno. Era un Natale (“ ‘u Natèl“) povero quello che tanti anni fà si festeggiava a Matera, ma ciò nonostante era una festa stupenda sotto vari aspetti: gastronomico, spirituale e familiare.

 

            

Tutto iniziava il 7 dicembre , la vigilia dell’Immacolata Concezione, quando i fedeli più rigorosi effettuavano un completo digiuno dai pasti, però le donne  preparavano “Il pane dell’Immacolata“, o  “Pane a tarallo(“u’ fcjlatjdd“, figura in alto a sinistra), appetitoso quando era fresco, e infatti per questo motivo era subito preda dei bambini. Il giorno dell’Immacolata incominciavano le feste natalizie con la preparazione delle pettole (“u’ pattl“, figura in alto a destra), delle cartellate (“u’ cartddet“, figura sotto) e dei porcellini (“u’ pjrcidizz” immersi nel miele o vin cotto o decotto a fichi).

Camminare per le strade era proprio una goduria olfattiva: da quasi tutte le case proveniva un’intenso odore di frittura di pettole, e una scena tipica di ogni famiglia consisteva in una pentola stracolma di pettole ancora fumanti che diveniva preda dei bambini (e non solo) che si avvicinavano in maniera furtiva. Questo era solo il primo assaggio.  Ciò che accadeva il giorno dell’Immacolata era tutto sommato lo scenario tipico dei giorni che precedevano il Natale. Solo alcuni negozi potevano permettersi l’esposizione di qualche pupazzetto di argilla, o di gesso o di cartapesta, e ancora di meno allestivano piccole luminarie intermittenti. L’atmosfera natalizia era sentita soprattutto in casa, dove le mamme e le nonne impastavano in continuazione la farina per fare i dolci: le friselle (“u’ frsedd“), le strattate (“u’ strazzet“), le meringhe (“u’ schmjtt“), i taralli salati (“u’ cangedd“), i biscottini al vino bianco (bschttjn), i biscotti grossi all’uovo ricoperti di zucchero (“u’ vschutt ingjlppet“) e i pasticcini (“u’ pastccjn“). I forni erano affollati a qualunque orario, e spesso i dipendenti erano chiamati a fare gli straordinari per far fronte alla numerosa richiesta. Si può immaginare la contentezza dei bambini quando vedevano arrivare dal forno le prelibatezze prima citate; nonostante il fatto che queste erano destinate prima di tutto alle persone/famiglie importanti o a coloro che avevano aiutato nella risoluzione di qualche problema, i bambini furtivamente riuscivano a rubare dai piccoli contenitori in rame (“la ramail“) dove la mamma li custodiva prima di regalarli.
Le ragazze iniziavano a vestire in questo periodo con abiti su misura, cuciti dalle sarte o da familiari. Spesso la mamma girava in lungo e in largo per cercare tra le mercerie tipi di stoffa che potessero accontentare la fantasia della propria figlia. Nella maggior parte delle volte non si veniva mai a capo della questione, e quindi si finiva con il solito litigio tra madre e figlia. Le ragazze più piccole erano di gran lunga le più sacrificate, infatti indossavano gli abiti delle sorelle maggiori adattati al proprio corpo, inoltre le parrucchiere in questo periodo erano molto più indaffarate dei barbieri perchè in alcuni casi si organizzavano,festicciole.Per i ragazzi era più o meno lo stesso discorso, anche se in molti possedevano fin da giovani un proprio reddito e quindi erano più autonomi nelle spese rispetto alle ragazze. I ragazzini, come avveniva per le fammine, erano costretti a indossare i vestiti dei fratelli maggiori o dei cugini. Dalle scarpe al cappotto era tutto un riciclare di abiti e indumenti. Uno dei momenti più belli e carichi di significato dell’intero periodo natalizio era la preparazione del presepe (che in tempi più o meno recenti sanciva l’inizio delle vacanze scolastiche) alla quale partecipavano gli uomini della casa, quindi padre e i figli. Il presepe era fatto di tavole, chiodi, filo di ferro, carta di sacchi di farina (più tardi di cemento) spruzzata di colori in modo da avere la sembianza della roccia. I bambini, muniti di rasola o di coltello, andavano a prelevare il muschio e l’argilla (per collocare i pupi) dalle Murge per poi completare il presepe.  I pupi erano generalmente fatti di argilla e colorati a mano; spesso mancavano di qualche arto in seguito ad una caduta per terra, e venivano uniti con un pò di argilla. In molti dei casi non si sapeva se erano più poveri i pupi del presepe o chi il presepe lo stava costruendo. In fin dei conti almeno i ragazzi avevano gli arti sani, mentre i pupi ogni anno si raccoglievano a pezzi. Ai lati del presepe venivano legati dei rami di pino con arance e mandarini. Tutto ciò, comunque, era  sempre una gioia, un piacere e un divertimento. Nella stragrande maggioranza dei casi lo scenario del presepe si ispirava alla Murgia o ai Sassi.
 

Vigilia dell’Immacolata, “la mangiet d l’opereij” (la mangiata degli operai)–  La vigilia dell’Immacolata, come scritto nell’articolo precedente, per molti consisteva in un rigoroso digiuno. Successivamente, nelle botteghe, il maestro (“u mast“) offriva la cena ai propri operai (“opereij“) e apprendisti (“u garzin“); il bottegaio, in questo modo, li ringraziava e mostrava loro rispetto visto che, nella maggior parte dei casi, il mantenimento dell’attività dipendeva più dai dipendenti che dal capo. La cena di solito consisteva in un piatto di spaghetti, prodotti nei pastifici cittadini che un tempo abbondavano, con sugo e baccalà, quest’ultimo considerato il “pesce dei poveri”, ed il tutto era servito dalla moglie del maestro (“migghiar du mast“). Il tutto si protraeva anche fino a tarda ora, e tra un bicchiere di vino e una partita a carte (ai giochi più comuni come “scaup“, “brusc’l“, e “tre sett“), c’era chi ascoltava la musica leggera, nel caso si possedeva un grammofono. I maestri più benestanti e colti, appassionati di musica classica e di operette, creavano un sottofondo alla cena con dischi raffinati. Camminando nei Sassi all’ora di cena si poteva sentire un eco prodotto dalla musica del grammofono.

 

La Vigilia, la Festa e Santo Stefano

 Ancora oggi la vigilia di Natale è un momento per stare insieme alla famiglia, mentre si assaporano le pettole e si gioca. Gli adulti giocano alla “Stoppa” o alla “Briscola“, mentre i bambini al “Gioco dell’oca” (“la pop’r“), con i bottoni come segna-posizione, al mazzetto o a tombola, dove il segna-caselle era costituito dalla corteccia dell’arancia o mandarino, o da legumi. Si aspettava la nascita di Gesù fino allo scoccare della mezzanotte, ci si scambiava gli auguri e si inzuppavano i taralli in un bicchiere di vino riservato solo ai grandi. Per i bambini c’era qualche dolcetto e alcune famiglie potevano permettersi le stellucce da far accendere ai propri figli per strada. Tutti si disponevano per una fila, e al proprio turno si procedeva nel baciare Gesù Bambino per poi inserirlo nella grotta del presepe. Natale era arrivato. Altri erano soliti andare in chiesa la notte della vigilia per assistere alla funzione religiosa. Il mattino seguente i bambini si recavano nelle case dei parenti per fare gli auguri di Buon Natale, con la possibilità di ottenere qualche soldo, anche se nella maggior parte dei casi ricevevano un pugno di fave arrostite o due fichi secchi. Ma ci si accontentava e si gioiva per quel poco che si riceveva.Erano già tempi recenti quelli in cui c’era l’usanza da parte dei bambini di scrivere la letterina di Natale e di porla sotto il piatto del genitore, per poi leggerla durante il pranzo. Nella letterina erano riportati i buoni propositi di sempre sia per i bambini che per gli adulti. A Santo Stefano era consueto non mangiare tutto ciò che conteneva noccioli o mandorle, in quanto la credenda popolare attribuiva la formazione di foruncoli (frignl n’ghjl). Pertanto si evitava di mangiare le mandorle (“l’amell”), nocelle (“njcedd”), mandarini (“mandarjn”), arance(“marongj”).

“La visciulij du Cap’donn” (la vigilia di Capodanno) Col passare delle ore, cresceva l’attesa per la fine dell’anno vecchio e l’arrivo del nuovo. Le aspettative della gente erano molte, così come le speranze che nell’anno nuovo potessero in un certo qual modo migliorare le condizioni di vita di ciascuno dei componenti della famiglia.I contadini, in vista della festa, rientravano un pò prima a casa, gli artigiani chiudevano prima la bottega, le case tutte si riempivano di odori e di preparativi per il cenone della vigilia. In pochissimi si potevano permettere feste da ballo organizzate in case o lamioni, tra i suoni degli strumenti tipici locali: la fisarmonica (“La irjanett“), la chitarra (“La catorr“), il mandolino (“‘U manduljn“), la batteria (“‘U iazz bonn“), il tamburo (“‘U tambrrjdd“). Il tutto diretto dal cantante, che come si diceva in dialetto “cmmannev la quadruglj“, ovvero “comandava la quadriglia”. Alle feste potevano prendere parte solo gli invitati o le coppie di fidanzati, parenti o vicini di casa dell’organizzatore. Le sedie erano disposte lungo il perimetro del locale, dove sedevano le donne che aspettavano l’invito da parte dei ragazzi al ballo. Nel locale erano presenti anche i parenti che sorvegliavano le ragazze (per preservarle dagli importuni eccessivi) e che si preoccupavano della buona riuscita della festa.Allo scoccare della mezzanotte per tutto il vicinato si sentivano urla di festa, e si ripeteva l’usanza di buttare le “robe vecchie” (a dir la verità erano in pochissimi che si potevano permettere un tale lusso), come i piatti filati (dopo che erano stati riparati diverse volte dal “Cuci-piatti”, “‘U conza piott“, bottiglie di vetro o grossi contenitori adibiti al trasporto di liquidi (“La r’zzaul“, “‘U r’zzjl“, “‘U chichm“, “La capès“, “‘U cuapasaun“), bicchieri e da tutto ciò che era considerato ormai decrepito e difficilmente riparabile. Il giorno dopo per le vie della città i vari spazzini (“‘U spazzjn“) provvedevano a riportare la pulizia per le strade. Dopo il reciproco scambio di auguri, ognuno tornava alla propria casa stando cercando di evitare i cocci di vetro e ceramica che rischiavano di rovinare le scarpe; lungo il tragitto si pensava e ripensava al nuovo anno, e alle buone aspettative. Ognuno in cuor suo però già sapeva che l’anno nuovo sarebbe stato come il vecchio, quindi si diceva a voce alta “Ionn nuv, vjta vecchij: iev passèt n’ata scjrnèt” (anno nuovo, vita vecchia, era passata un’altra giornata).

 
Capodanno 
A Capodanno non c’erano particolari festeggiamenti. Le famiglie erano frequente trattenersi in casa a attendere l’anno nuovo, giocando e chiacchierando. Se vi erano giovani e ragazze, poteva accadere che si improvvisasse un ballo al ritmo di un tamburello. Ad esso prendevano parte anche gli anziani, che non volevano essere da meno dei giovani. Le donne scioglievano dal collo il caratteristico fazzolettone e ballavano la tarantella. Si mangiucchiava qualche dolcetto e si beveva qualche buon bicchiere di vino, pronunziando la frase augurale: “Buona fine e buon principio”. Non mancavano le famiglie che attendevamo il nuovo anno in preghiera, recitando il Santo Rosario. A mezzanotte si buttavano via i piatti vecchi e utensili casalinghi inutilizzabili. Si riteneva fosse di buon auspicio. Oltre tutto, ciò dava molta allegria. A mezzanotte le ragazze si chiedevano quale potesse essere il loro futuro matrimoniale. Invocando perciò l’angelo della buona novella; quindi uscivano sulla strada, ascoltando i rumori e osservando i passanti. Da particolari segni cercavano di capire il loro futuro d’amore.

 
La vigilia dell’Epifania – L’arrivo della Befana (“La Bbfèn“)

 I bambini aspettavano impazienti il regalo che la Befana avrebbe portato. Non si trattava di doni molto costosi, in quanto le famiglie non potevano permettersi grosse spese. La maggior parte dei bambini riceveva anche caramelle e cioccolate, oltre che carbone (naturalmente di cioccolato). I più piccoli riponevano quindi le calze nei pressi del focolare, accanto ad una letterina con la richiesta dei doni. La cena della vigilia dell’Epifania, secondo tradizione, era abbondante e caratterizzata da nove alimenti di caratteristiche diverse in forma di assaggio. Questo era l’augurio per un prospero anno nuovo. I genitori incuotevano timore ai propri figli dicendo che chi avesse mangiato più di nove alimenti, sarebbe passato sotto le mani del “cuci-piatti“, “U’ conza piott“, che avrebbe cucito loro la bocca. Stessa sorte veniva annunciata per chi non voleva andare a dormire, nell’intento di sorprendere la Befana mentre lasciava i doni. I religiosi più rigorosi, allo scoccare della mezzanotte, facevano una piccola processione con i pupi del presepe raffiguranti i Re Magi. Al termine della processione, che spesso interessava tutto l’intero vicinato, i Magi venivano posti nel presepio. Il mattino dell’Epifania tutti i bambini si riunivano nel vicinato, o per strada, per raccontare il proprio modesto regalo.Spesso capitava che i genitori punivano i bambini per disobbedienza, a volte per motivi futili, e ritiravano loro il giocattolo che era stato ricevuto dalla Befana. Questo, permetteva ai genitori di ripresentare lo stesso regalo l’anno successivo, per lo stesso bambino o per un figlio minore.

 Epifania

 Particolare importanza veniva data alla festa dell’Epifania. La tradizione prevedeva che, nel giorno della vigilia, si dovessero, mangiare “nove cose”. Non si trattava certo di nove portate; si voleva dire che nel pasto dovevano entrare almeno nove ingredienti; cosa facilissima da ottenersi. Intensa era l’attesa nel giorno di vigilia, in particolare per i bambini che credevano nella vecchia Befana, la quale, di notte scendeva lungo i camini delle case, per portare i suoi doni. I bambini, per la circostanza, erano soliti appendere alla cappa del camino un calzino. I doni erano poca cosa: frutta secca, un’arancia, una mela, qualche caramella. Niente giocattoli. Solo negli anni ’30 si cominciò a donare una palla di gomma ai maschietti e una bambolina alle femminucce. Per i bambini cattivi si diceva che, durante la notte, passasse l’artigiano che riparava i piatti (“‘u conza piott“), con l’intento di cucire la bocca di coloro che avevano compiuto monellerie. Gli adulti ci scherzavano sopra, augurandosi che il “conciapiatti” chiudesse la bocca delle proprie mogli. Con la Epifania e con l’arrivo dei Magi a Betlemme, finivano le feste natalizie e il presepe veniva “guastato”, anche se non erano poche le famiglie che preferivano tenerlo fino al 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate, data di inizio del carnevale. Nella sera dell’Epifania, il Bambino veniva portato in processione, affidato alle mani dei più piccoli della famiglia. Sul capo delle bambine venivano sistemati asciugamani bianchi. Tutti i parenti e gli amici di famiglia facevano corteo, illuminando il percorso con candele e con i “lampari” dei traini.Si cantavano, per l’ultima volta, gli inni natalizi più comuni. A volte, interveniva un suonatore di fisarmonica o di chitarra, per accompagnare i canti: “maria lavava, Giuseppe stendeva, il bimbo piangeva al sonno che aveva…”, (U Cont du Natel) Dopo aver compiuto il giro dei vicinati più prossimi, il piccolo corteo rientrava in casa. Tutti i presenti baciavano il Bambino e lo riponevano gelosamente in un contenitore, donde sarebbe stato prelevato l’anno dopo. I rami dell’albero, con cui era stato addobbato i presepe, venivano distribuiti e portati in campagna, perché propiziassero il raccolto. I padroni di casa offrivano i frutti appessi all’albero e distribuivano qualche biscotto, un po’ di ceci, fave arrostite e vino. Spesso i giovani, cogliendo l’occasione propizia, improvvisavano una festa da ballo, che permettesse loro di restare qualche ora accanto alle ragazze.

Il ritorno alla normalità 

Gli incontri con i parenti avvenivano per tutto l’arco delle festività natalizie, quindi compreso Capodanno e la Befana. Col finire delle feste iniziavano a terminare anche le scorte di dolci fatti in casa.La vigilia della befana si ripresentava il rito usato per far stare buoni i bambini, cioè si riprometteva loro un regalo, che consisteva di solito per le bambine una bambola di pezza, per i bambini le caramelle fatte dalle bucce delle arance, per i bimbi “cattivi” cenere e carbone. Nel giorno dell’Epifania venivano posti i Re Magi (per chi li aveva) vicino la grotta e dal giorno successivo si procedeva nel ritorno alla normalità: i bambini a scuola, per chi ne aveva ancora la volontà, e gli adulti a lavorare nelle campagne.Il Natale della famiglia materana media era più o meno riconducibile a quanto descritto, ma c’è da dire che molte altre persone in questo periodo non avevano neanche il pane per sfamarsi, e per loro queste feste erano solamente giorni come altri. Spesso non si aveva neanche la forza di sperare in un altro giorno diverso, per cui si usava dire in segno di rassegnazione:

Mò van Natel senza dner m lascj u giurnel e m vauchj a chuchuè” (Ora viene Natale, sono senza soldi, leggo il giornale e vado a dormire)   Il presepe si rimuoveva alla Candelora, prima dell’arrivo del carnevale, e il rito che consacrava la fine delle feste era la processione finale del pupo che rappresentava Gesù Bambino in giro per la casa (solitamente ambiente unico); infine si smantellava il tutto, infatti si ponevano i pupi in un contenitore, si conservavano le casette e le luci, e si mangiavano i mandarini appesi all’albero (nei tempi più moderni anche le cioccolate).Durante le fasi di rimozione del presepe si pensava all’anno appena trascorso e si pregava affinchè l’anno successivo potesse essere migliore.

Versione Coro della Polifonica Materana “Pierluigi da Palestrina”


Live in Matera – 2009, January 6

Diretti dal m°: Antonio Catenazzo
Tenore: Roberto Gialdino
Alla fisarmonica: Antonio Guanti

 

Fonte:UffStampComMatera (fonte: Matera – Frammenti di vita contadini – Antonio Giampiero

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