IL CONTE
di Claudio Savoldi Bellavitis
Armenio Editore
pag. 403.
€ 20
Recensione a cura di Valerio Consonni
In una ricca Milano degli anni ‘80, contrassegnata da luci e tenebre – feste, balli, gioielli, belle donne, famiglie nobili, industriali, politici, rapine… si racconta uno scandalo che a suo tempo macchiò il capoluogo lombardo.
Quando Claudio Savoldi Bellavitis decise di pubblicare “Il Conte”, scrisse che si trattava di un’opera di fantasia, una pura invenzione. Poi cominciò a capire l’importanza che poteva avere la sua storia, perché in realtà era la sua autobiografia, lui il conte Bellavitis, erede di una delle più importanti famiglie della aristocrazia milanese.
L’autore racconta la vita di due diversissimi fratelli, nuovi Caino ed Abele: Gabriel ovvero Claudio B. votato al bene, ed Augusto dedito al male, un freddo organizzatore di rapine di gioielli e quadri preziosi, nonché di traffico d’armi. Qui i buoni sono buoni e i cattivi veramente cattivi. Proprio come nelle fiabe più nere, di quelle che quando le ascoltavamo da piccolini, avevamo poi paura ad andare a dormire. Già lo si intuisce dalla bellissima ed elegante copertina: uno sfondo nero maculato di foglie, fiori ed arabeschi, sul quale risalta una macchia bianca come la neve della camicia di uno smoking; una croce rovesciata che brucia; una mano con guanto bianco che sembra una pistola che spara; un diamante luminescente sormontato da una corona argentea. Tutta una simbolica che già apre uno scorcio sul libro.
Leggiamo di una madre che non si capisce se per paura o avidità è sempre d’accordo con il figlio cattivo. Una sorella ambiziosa che vive di subdoli intrighi pur di fare una bella vita.
In una ricca Milano degli anni ‘80, contrassegnata da luci e tenebre: feste, balli, gioielli, belle donne, famiglie nobili, industriali, politici, rapine… si racconta uno scandalo che a suo tempo macchiò il capoluogo lombardo. Delineando una realtà luciferina, Bellavitis genera una malia capace di attirare dentro di sé il lettore, così da impedirgli di prendere pause.
Il tutto visto attraverso uno sguardo leggero, ma profondo, illuminato da uno spirito arguto e vivace, curioso. Le tenebre sembrano inghiottire l’unica luce del libro, lui il conte Gabriel, l’unico della famiglia ad avere un’anima ed un progetto buono di vita. A lui potere e ricchezza non interessano; le note, la musica sua salvatrice e musa… Gabriel è dotato di una dimensione affettiva, ha cura della propria coscienza, della sua sensibilità concreta. Dal dolore nasce bellezza. Consapevole ormai di essere rimasto solo, un orfano senza famiglia, dove ogni costruzione gli sembra precaria, ecco che nuove energie fluiscono nel suo sangue. Saranno forse quelle del papà da lui tanto amato, morto quando Gabriel aveva solo 13 anni, perito fra le fiamme di un misterioso incidente d’auto? Ma alla fine Gabriel esce da quel l’abisso di nero. Come? Raccontandosi, scrivendo la propria autobiografia, approdando in punta di piedi al mondo delle parole. “E se ti sembra di perdere completamente te stesso confrontati: e ciò che sei riconosci!” diceva Goethe in un suo romanzo. Come in una tragedia greca, Gabriel subisce una catarsi, una purificazione da quelle terribili emozioni. Nasce una nuova forma di consapevolezza: Bellavitis è divenuto in qualche modo diverso da come vi era entrato. Forte e solo, denuncerà i misfatti del fratello Augusto.
Il libro ha un doppio finale: uno vero, reale, e poi il secondo, inventato, quello che sarebbe piaciuto al conte Bellavitis. Nel finale vero scopriremo perché Augusto è diventato quello che è: la sua malvagità voluta e subita. Invece in quello fittizio, quel microscopico granello, quell’invisibile frammento incastrato nell’ anima che continua a ronzare nella mente, spinge l’autore a cercare nuove soluzioni, risposte che la vera realtà non può dare. Ecco allora che la narrazione riprende, forse come dice l’autore un po’ in modo hollywoodiano, ma per “quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos” scriveva 2500 anni fa Eraclito.
Una autobiografia terribile ma anche coraggiosa dove una passione, se ben guidata, può condurre oltre il dolore.
Claudio Bellavitis è ora un artista polistrumentista di fama internazionale.