Festival Puccini 2023 Turandot regia Daniele Abbado

Una Turandot nel pieno rispetto della tradizione pur con interessanti innovazioni registiche è quella che abbiamo visto al sessantanovesimo Festival Pucciniano 2023 a Torre del Lago. Coprodotto con il Teatro Goldoni di Livorno, con la impeccabile regia di Daniele Abbado e diretto egregiamente da Roberto Trevino, entrambi  hanno saputo restituire le contaminazioni delle avanguardie musicali, da Strauss a Prokofiev, da Ravel a Stravinskij, d’inizio Novecento che tanto hanno influenzato l’estremo capolavoro incompiuto del toscano Puccini.

In questa super collaudata produzione, che già da tre anni va in scena a Torre del Lago,  la scelta del direttore d’orchestra è stata di proporre il finale elaborato da Luciano Berio a conclusione di questa ultima opera incompiuta dell’amatissimo Giacomo Puccini che anche nell’ultima replica del 19 agosto ha visto la sterminata platea di turisti stranieri e gente locale,  appassionati d’Opera, venuti giustamente a riassaporare le famose arie che tutti abbiamo in mente dall’infanzia. Turandot andò in scena per la prima volta al Teatro alla Scala nel 1926 con la direzione di Arturo Toscanini. Quest’ultimo ritenne, a mio parere giustamente, di non andare oltre la morte di Liu, ultima fase dell’opera ancora completamente autografa di Puccini che mori non facendo in tempo a scriverne l’epilogo finale.

Compositore lucchese che trova in quest’opera, ricavata dalla fiaba di Gozzi che il librettista Renato Simoni gli aveva proposto, la giusta chiave per anticipare i lavori di Musorgkij, come il Boris Godunov, e il Moses un Aaron di Schoenberg, opere ambedue incentrate sul rituale rapporto tra la folla e il potere come in fondo si può ricondurre il tema della Turandot. L’inquietante musica di Puccini affascina per la sua grandiosa ricchezza immaginativa, per le sue note laminate, per il suo tipico fraseggio sempre crollante, pur nelle brevi impennate che tentano di trattenerlo. Puccini ama “graffiare l’emozione senza mai risolverla in un’immagine conchiusa. In Turandot, come nelle sue opere più famose, c’è un sostanziale dibattersi nevrastenico dell’anima dentro se stessa

La Turandot di Puccini rilevava giustamente un bel saggio di inizio 2000 del mio amato Enzo Siciliano, profondo conoscitore della lirica, è un po’ il contraltare dell’Aida verdiana. Entrambi le opere fanno spettacolo di se stesse. Ma a differenza di Verdi che rispettava gli obiettivi significati dei ruoli di soprano, tenore, baritono, mezzo soprano e basso, per Puccini tutto ciò non è più veramente valido: ed ecco che raddoppia il soprano e lo sdoppia in Turandot e Liu e, se recupera l’eroicità del tenore, la spoglia di ogni connotato civile. Introduce piuttosto la folla e il terzetto delle maschere, rifacendosi alla Tempesta di Shakespeare dove ricordiamo le memorabili figure di Calibano Trinculo e Stefano. E devo dire che la regia di Daniele Abbado le ha perfettamente evidenziate.

Puccini non era, come ripeteva lui stesso, un sinfonico puro, per lui la musica s’identificava per intero con la magia del melodramma. Quest’ultimo diveniva favola di se stesso, una cerimonia crudele, in cui si dovevano vedere rappresentati i miti più cocenti della sua storia. Anzi il suo mito più conturbante: l’amore. Il regista ha reso questa prigione dell’anima con un allestimento e le scene di Angelo Linzalata, stupendoci con le quinte teatrali continuamente rotanti disseminate di graffiti, realizzate dagli artisti della Cittadella del Carnevale e con i fascinosi costumi ideati da Giovanni Buzzi.

I suoi personaggi agiscono attorno a questa sorte di totem della cultura cinese subito svelati dalla discesa del drappo rosso a inizio del primo atto.  Il coro, così importante in quest’opera, diretto da Roberto Ardigò, oltre che cantare magnificamente, si muove con grande coordinazione in questo paesaggio favolistico. Così pure il simpatico coro delle voci bianche istruito perfettamente da Chiara Mariani. L’apparizione dell’imperatore Altoum/Marco Montagna dalla sommità di uno dei totem, sembra uscita da un film di Akira Kurosawa.

Turandot, interpretata da Sandra Janusäite, con quel suo raffinatissimo costume ideato sempre da Giovanna Buzzi si contrappone all’applauditissima Liu/ Emanuela Sgarlata, e riesce a sedurre anche noi, oltre che Calaf/ Amadi Lagha, al di là che per il sontuoso canto, anche per quella sua magnetica attrazione verso l’impossibile.

Liù con quei straordinari candidi filati ha incantato il pubblico del Festival Pucciniano, a teatro tutto esaurito, di cui il 50% proveniente da varie parti del mondo, tributandogli applausi a scena aperta nel primo atto al momento di “Signore ascolta ” e convinti e fragorosi applausi finali. Così come li ha ricevuti, specialmente nella canonica “Nessun Dorma!..” il tenore Amadi Lagha, perfetto Calaf invaso e irrimediabilmente accecato di febbrile amore verso la mitica protagonista.

Bravi anche i tre dignitari di corte Ping, Pang, Pong, rispettivamente Simone del Savio, Marco Miglietta e Andrea Giovannini che abbiamo trovato divertenti e parodianti come d’altronde Puccini stesso voleva. Profonda voce baritonale quella che ha espresso Timur/Antonio di Matteo, tratteggiando adeguatamente il vecchio re tartaro spodestato padre di Calaf senza incorrere, come spesso accade, nella solita rappresentazione di macchietta senile.

Belle e determinati anche le luci sempre di Angelo Linzalata che hanno reso la magia di quei fondali apparentemente astratti, dai raffinati effetti luministici, dove si stagliavano i personaggi pucciniani. Insomma un ulteriore meritato successo di questo Festival Pucciniano egregiamente presieduto da Luigi Ficacci che ci ha mostrato una magnifica giornata “Bohème” con la pregevole regia di Christophe Gayral, ingiustamente criticata dal direttore Alberto Veronesi per la sua non convenzionalità, ( direttore subito perfettamente e giustamente  sostituito da Manlio Benzi nelle repliche successive ) ma a mio parere e del pubblico  invece efficacissima, e con un altrettanto deliziosa “Madama Butterfly”  con la regia di uno dei più autorevoli registi, scenografi e costumisti d’opera qual è Pier Luigi Pizzi. A conclusione di questa riuscitissima edizione ci aspetta di vedere, con grande curiosità l’ultima replica de “Il Tabarro” assieme al “Il Castello del Duca Barbablù” il 26 agosto prossimo.

A Cura di Sergio Buttiglieri

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