Con una produzione annuale di 15.000 quintali di olio, oltre 150.000 mila piante di olivi.
L’oro liquido di Tibur in prevalenza da piante ultrasecolari, punteggiano le colline di Tivoli rendendo ancora unico il paesaggio che ispirò Piranesi.
È nata prima la pianta di olivo o la città di Tivoli?
La domanda sorge spontanea: l’una e l’altra sono avviluppati nel paesaggio antico e moderno della campagna tiburtina in un abbraccio ancestrale. Come un unico verdeggiante organismo che vive in quest’angolo d’Italia da oltre 3.000 anni senza soluzione di continuità.
Non si sa per certo quando l’olivo venne introdotto su queste terre, ma lo zampino fu dei Romani che lo coltivarono con successo nelle loro ville, complice il clima temperato della città e l’esposizione a ponente aperta fino al mare.
In seguito, furono i Tiburtini a espandere le piantagioni e, come testimoniano le fonti, sin dal 945, con gli uliveti che ormai si estendevano imponenti con grandi fusti sparsi per la campagna tiburtina, venivano inviati alla Chiesa di Roma derrate di ramoscelli d’ulivo per la Domenica delle Palme.
Per sperimentare questo patrimonio culturale e agricolo, in attesa di ricevere il Marchio a denominazione d’origine protetta, bisogna addentrarsi fra i sentieri in cui vi sono uliveti a boschi, colonie di foglie verdi e argentate, tronchi possenti, spesso cavi, dove oltre 150.000 “creature” scoprono la loro antica natura sparsi qua e là in circa 900 ettari di terreno. L’esplorazione nella grande bellezza parte da via di Pomata, anticamente conosciuta come Via Carciana in cui ci si approvvigionava di calce.
Il sentiero s’insinua per 5 chilometri sul pendio di colle Ripoli e Monte S. Angelo in Arcese dove, a partire dal II secolo a. C., sorsero le “seconde case” degli aristocratici romani, attratti dal panorama sulla campagna verso la città eterna e dalla possibilità di sfruttare l’acqua dei vicini acquedotti pubblici di Roma.
L’oro liquido di Tibur
Nei pressi, fra le vestigia di Villa Adriana, si eleva un esemplare tra i più antichi di Tivoli, il cosiddetto Albero Bello, risalente al XIII secolo, indiscutibile patriarca degli olivi tiburtini. Eretto come un monumento al centro di filari datati i primi anni dell’Ottocento, quando ciò che rimaneva della residenza imperiale venne acquistato dalla famiglia Braschi e destinato a terreno agricolo per la produzione di olio.
Il percorso dell’oro liquido, come i Fenici chiamavano l’olio, continua in via di Maria Ss. di Quintiliolo, nella Strada di San Martino, in via di Bassi e a Colle Nocello, ma ovunque lo sguardo giri sul comprensorio di Tivoli, s’incrocia sempre un gruppetto di olivi a marcare il territorio.
Olivi “piantati come artigli sovra i ruderi della civiltà antica”, che ispirarono l’incisore Giambattista Piranesi e in seguito gli acquerellisti Ettore Roesler Franz, cittadino onorario di Tibur, ed Edoardo Tani, rendendoli immortali.
Il pregiato succo è un extravergine color giallo oro con sfumature verdi, il cui sapore è fruttato con sentori erbacei o di mandorla e un retrogusto amarognolo e piccante che “pizzica” la lingua: la cifra dell’olio delle terre tiburtine che ogni anno, tra vecchie e nuove specie, come Leccino, Frantoio, Moraiolo, rende circa il 14 per cento della produzione, per lo più destinato al consumo familiare, il cosiddetto “olio per la casa”.