Non servono nuove leggi e nuove programmazioni: tutte le soluzioni per la Fase 2 di COVID-19 sono nel Patto per la Salute 2019-2021, approvato in Stato Regioni a fine 2019 e che per la pandemia non ha fatto ancora in tempo a essere del tutto applicato. Nel Patto c’è l’infermiere di famiglia/comunità (IFeC), una figura che l’OMS ha già descritto e introdotto fin dal 2000, ma che nel nostro Paese per ora è solo ufficiale sulla carta, ma non attuata ovunque.Nelle Regioni dove tale ruolo è a pieno regime (poche per il momento, quasi tutte benchmark, e in molte ancora in fase di sperimentazione) i cittadini hanno un punto di riferimento preciso nel loro territorio per qualsiasi necessità assistenziale. I risultati? Dove è già attivo (in Friuli Venezia Giulia ad esempio dove lo è dal 2004, ma così si sta rivelando anche in Toscana e in altre Regioni dove la sua attivazione ha già preso piede prima dell’introduzione nel Patto) sono rilevanti a partire da una risposta immediata e tempestiva alle esigenze della popolazione, che si rivolge al servizio di Pronto Soccorso in modo più appropriato (in un triennio il Friuli VG ha ridotto i codici bianchi di circa il 20%). Poi anche una riduzione dei ricoveri (in quanto si agisce prima che l’evento acuto si manifesti) e quindi riduzione del tasso di ospedalizzazione del 10% rispetto a dove è presente la normale assistenza domiciliare integrata. E l’infermiere di famiglia/comunità è garanzia anche della continuità assistenziale. Se tale figura fosse già stata istituita avremmo avuto una rete adeguata per gran parte delle funzioni assegnate alle USCA per COVID-19 che, ad ogni buon conto, dovrebbero essere formalizzate – come già accade in alcune Regioni come la Toscana – già come micro-équipe medico infermieristiche.
Senza dimenticare la promozione di un rapporto di maggiore fiducia tra infermiere e cittadino, dovuta a una più rilevante prossimità e una migliore offerta assistenziale che va oltre la prestazione erogata, verso una dimensione sociale e relazionale che migliora la qualità di vita dei cittadini. Secondo un’indagine condotta sempre in Friuli-Venezia Giulia sulla qualità percepita dai pazienti e familiari fruitori del servizio, gli utenti sono più che soddisfatti del nuovo servizio: il 93% degli intervistati ritiene che la presenza dell’infermiere di comunità (quali sono le RSA ad esempio) risponda meglio ai propri bisogni assistenziali rispetto al precedente modello di assistenza domiciliare integrata. E per averlo serve un’integrazione degli organici infermieristici ormai all’osso: durante la pandemia i turni sono stati anche oltre le 12 ore. Quanti ne servono? La stima (senza considerare le Regioni in cui è presente un maggior numero di anziani e fragili dove le necessità aumentano) l’ha fatta la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche: sul territorio, per rispondere ai bisogni di salute degli oltre 24 milioni di cittadini con patologie croniche o non autosufficienza, la Federazione nazionale degli infermieri ha calcolato la necessità media di almeno un infermiere ogni 500 assistiti (assistenza continua) di questo tipo: circa 20mila infermieri di famiglia/comunità. Un numero che è desumibile anche calcolando un infermiere di famiglia e comunità ogni 3mila cittadini circa.