Ma soprattutto con un cast di alto livello a cominciare dal tenore Francesco Meli, il tenore italiano per eccellenza, che dà vita al protagonista, l’infante di Spagna Don Carlo, innamorato perso della sua matrigna Elisabetta di Valois, interpretata magnificamente dall’uruguayana Maria José Siri, soprano premiata nel 2017 con il prestigioso riconoscimento Oscar della Lirica e che ha da poco debuttato alla prestigiosa Royal Opera House e al Festpielhaus Baden Baden. Andata in sposa all’antipatico Filippo II, personaggio di estrema complessità, autentico protagonista dell’opera, che esprime la sua personalità attraverso un libero declamato, duttilissimo a seguire i moti dell’animo eppure mai povero di sostanza melodica. Portato egregiamente in scena dal basso Michele Pertusi, uno dei bassi più apprezzati al mondo, che non accetta l’amore incestuoso del figlio. Regnante che per tutto il tempo rimarrà immerso in un mare di malinconica solitudine. Celebre la sua frase: “col sangue sol potei aver la pace del mondo”.
L’altra sera rivedendo a La Scala l’ultima replica del Don Carlo con la mirabile direzione musicale di Riccardo Chailly mi sono nuovamente reso conto di quanto la lirica sia stata meritatamente premiata dall’Unesco come Patrimonio Mondiale immateriale dell’Umanità.
La versione scelta da Chailly è quella del 1887 alla Scala nella versione italiana ridotta a quattro atti, che il compositore riadattò dopo la Prima in cinque atti all’Opéra di Parigi del 1867, in cui non riscosse un unanime successo, ci siamo ritrovati nella sua inimitabile magia operistica, da alcuni critici tacciata di “wagnerismo” per il troppo protagonismo dell’orchestra. Anche se gl’insegnanti del Conservatorio di Milano dissero a suo tempo che egli non aveva attitudini per la musica e ch’egli non possedeva nessuna abilità; e non aveva che del genio: troppo poco per dei professori e dei critici che a lungo avevano criticato questo Don Carlo trattato con uno sbrigativo senso di insofferenza rispetto a quella incondizionata esaltazione dell’ultimo Verdi, quello che secondo loro “aveva imparato il mestiere”.
“Il suo alito ha un sano odore di cipolla e la sua voce è imperiosa, i suoi istinti pieni di veemenza primitiva. E questo a molti disturbava”.
Perché, ci ricordava Barilli, “l’arte di Verdi è tutta sovvertimento, deformazione, caricatura sublime, e mette a fuoco i quattro canti della terra”.
Con la impeccabile conduzione di Chailly, direttore artistico del teatro scaligero, apertamente innamorato di quest’opera, profondamente ricca di contrasti drammaturgici, fra ciò che è il concetto di potere e ciò che è l’aspetto più intimo dei personaggi, Verdi ha nuovamente incantato tutti gli spettatori, di questo che Dominique Meyer, sovrintendente del teatro alla Scala ha giustamente definito uno dei massimi capolavori verdiani. Grazie anche alla regia calibratissima di Luis Pasqual che senza essere convenzionale ha riletto la vicenda tratta dal testo teatrale di Schiller “Don Karole Infant con Spanien” con grande maestria facendoci apprezzare le mitiche scene corali intervallate dai magnifici assoli dei protagonisti ricoperti di lunghi applausi dal pubblico entusiasta che gremiva la platea. In tutto il Don Carlo, ci ricorda il regista, Verdi racconta il “dietro le quinte” del potere, quello che non dovremmo vedere per rimanere sempre nell’illusione. ” Per questo Pasqual ha preferito far vedere la cerimonia dell’autodafé nel suo splendore solo per pochi minuti, e privilegiare invece la preparazione della messa in scena che viene proposta al pubblico come dimostrazione propagandistica, nel Cinquecento come nel nostro mondo attuale.
Questa operazione è riuscita anche grazie alle scene di Daniel Bianco che ci fa vivere la vicenda in una sorta di torre/prigione in alabastro integrata a un insieme di griglie per creare un’atmosfera chiusa senza essere cupa. Scena che continua a ruotare, quasi a simbolo di una vicenda che non ha tregua se non con la rottura degli equilibri dinastici.
Per non parlare del Rodrigo, Marchese di Posa, interpretato con grande efficacia dal baritono Luca Salsi, anche lui sommerso da scroscianti applausi, che ha fra l’altro inaugurato nel 2023 l’Aida al Metropolitan di New York e alla Wiener Statsoper, figura chiave, quasi un eroe, per sensibilizzare Don Carlo a ridare dignità al popolo oppresso da Filippo II delle Fiandre. E che alla fine del terzo atto disarma l’incauto Don Carlo, insorto contro il sovrano in una esasperata quanto inane crisi di nervi. Mentre il mezzo soprano Veronica Simeoni nel ruolo de la Principessa d’Eboli, innamorata persa di Don Carlo non si rassegna al non essere corrisposta e ne combina di tutti i colori per attrarne l’attenzione a scapito anche della dignità dell’infante. Lei, secondo un divertente commento di Eugenio Montale, “canta come canterebbe la cornice di una specchiera seicentesca se l’opera di un orafo potesse aver voce.” Altra figura inquietante quanto potente è il tonante inquisitore fatto rivivere dal basso koreano Jongmin Park. Emblematica figura della vicenda verdiana ambientata in Spagna, tratta da Schiller, con il libretto scritto da François-Joseph Méry e Camille du Locle, di raccordo tra il potere temporale e quello divino.
Il Don Carlo in fondo è la rappresentazione della tragedia del potere, un potere visto nella sua inadeguatezza umana e politica. Verdi in questo dramma ci propone un pessimismo tragico nelle relazioni che circondano il potere e ne sviscera le recondite sfumature oscillanti tra storia e intimità, avvolti nel dubbio.
Persino Eugenio Montale riteneva che in quest’opera il cigno di Busseto ha trovato un colore nuovo, ha trovato la carie nera e profonda della controriforma e le circonvoluzioni e i festoni del grande barocco.
“In quell’enorme zanzariera che è la valle del Po fra Parma e Mantova, doveva nascere il genio di Giuseppe Verdi , e Parma diventare la roccaforte dei verdiani” scriveva Bruno Barilli nel suo indimenticabile libro “Il Paese del Melodramma”.
Fantastico inizio 2024 con questa ultima replica del Don Carlo scaligero.
Sergio Buttiglieri