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“Oppidum condunt; Aeneas ab nomine uxoris

 Lavinium appellat. Brevi stirpis quoque virilis

ex novo matrimonio fuit,

 cui Ascanium parentes dixere nomen.”

 

(“E fondarono la città; Enea la chiamò Laviniun dal nome  della moglie. E da quell nuovo matrimonio nacque un solo  figlio maschio, cui dettero nome Ascanio.”).

 

Titus Livius – Ab Urbe Condita

 
 

Rilàssati, vuoi? Lasciati accompagnare nel cuore di una Roma che credi di conoscere, ma che forse non ami. Certo: Roma desta ammirazione, e anche dispetto, perfino odio. Da tutto il mondo vengono qui e tornano a casa, troppo spesso, con la conferma di ciò che sapevano già. E semmai con un’agendina riempita di luoghi comuni. Rilàssati, entra nudo in questa città-mondo.

 
 

«Roma spalmata come fango sulla lama / infiammata del cielo, ragazzi in fiore, / tutta l’estate nella maglietta grama, / ah vergogna e splendore…»

Che Roma è, questa? Questa è la Roma vissuta da colui che il mondo intero (tranne… l’Italia) considera il più grande Poeta dell’Italia contemporanea: Pierpaolo Pasolini, bolognese di nascita, friulano di educazione, romano per destino. Dunque, la Roma di Pierpaolo Pasolini. Come dire la Firenze di Dante Alighieri? Il nuovo-antico Giappone di Yasunari Kawabata? L’Inghilterra

di William Shakespeare? No, la Roma che stai per sentire intorno e dentro a te è il Mondo esploso, la speranza perduta, la smisurata perdita del passato. Pasolini ce la offre come un vestito, come una grotta, e come uno spazio aperto. Lo spazio del Mediterraneo, la fonte della civiltà occidentale,

che si spalanca al giovane Poeta profugo da mille mondi diversi, da Bologna e dal Friuli, dalla Bassa Padana e dalle valli Bellunesi. Il luogo nel quale Pasolini porta sua Madre: Roma, la nuova Terra Madre. La nuova Lingua. O meglio, il Linguaggio di tutto il mondo antico contenuto nel mondo moderno. Insomma, dentro quale Roma ti sto invitando ad entrare? Guardati intorno,

ascolta, ma prima, con la tua fantasia aperta dal desiderio, non scambiare Roma con le boutiques, con i ruderi, con i Ministeri. Lasciati andare. Roma è la Calabria, è la Giordania, è lo Yemen, è l’Africa del poeta senegalese Senghor, di Sekou Touré. È la città degli Ultimi del mondo. È la città per la quale il Poeta cancella perfino la parola consumata di “disperazione” e inventa la parola “di-speranza”, affinché sia lucido e non trasandato il significato di perdita della Speranza. È la città che non s’era mai vista prima. Non Babilonia, e nemmeno la Berlino del 1989 (che Pasolini non poteva

immaginare). È la città-continente che tutto contiene e tutto annienta: contiene le razze e le minime sfumature dialettali di Ciociarìa e di tutti i Sud del Mediterraneo. È la Roma dei bambini neonati tra le braccia delle madri, tra le braccia delle strade, dei ragazzi senza abbracci, dei giovani senza linguaggio, senza aratro, senza libri, senza modelli, senza uguaglianza.

Qui non vedi il romanticismo né il melodramma cinematografico di de Sica né la trama astuta della commedia di Plauto. È una città rimasta senza canovaccio, senza sceneggiatura. A malapena ispira ad Alberto Moravia il racconto di un mondo terziario, psicoanalitico, senza corpi, senza affetti.

Eppure Pasolini riesce a raccontarla e a disseminare la città di punti di riferimento come le molliche di pane di Pollicino, affinché tu ti possa riconoscere riconoscendo la sua dolorosa bellezza.

Il Poeta ti mette tra le mani una vecchia cinepresa, una Arriflex, una Mitchell, ti fa rivivere il Mito greco e la fiaba araba delle Mille e una notte, la Firenze del Boccaccio e l’Inghilterra di Chaucer, lo squartamento di Sodoma, la povera illusione del marxismo e lo sradicamento del cristianesimo come fatali figure della commedia umana. E ti fa riconoscere, nelle tue attuali paure dello straniero, del diverso, nel manesco capoccia calabrese, ormai senza autorità e senza decoro, appostato sulla soglia della baracca di Pietralata, affogato nella sua camicia bianca e nella sua giacca nera. E tutt’intorno i bambini avanzano… Ti chiedi: vanno verso il futuro? No, avanzano, si moltiplicano

e non crescono. Qualcuno di loro, forse abbagliato da un raggio filtrato tra le finestre sfondate del Colosseo, raggiunge una collina, altri lo raggiungono, si guardano indietro, non vedono adulti al

loro inseguimento, li hanno seminati. Un respiro: si chiamano per nome, non è loro d’ostacolo la pelle né le sillabe che riescono a mettere insieme, non hanno molti argomenti ma l’intesa è pronta, assoluta come la nuova speranza, come tanti anni fa la descrisse un’amica del poeta, Elsa Morante, con un titolo che oggi suona e canta come un alleluia: Il mondo salvato dai ragazzini. Ti ringrazio anche stavolta, amico Lettore, di averci accompagnato in questo viaggio nella verità del dolore,

raro luogo nel quale è possibile coltivare un affetto.

 
 
 
 
PERCHE’ VALENTINO STA
A ROMA E NON A MILANO,
PARIGI, NEW YORK? 
 

Chiedilo a Lui. Bussa a Palazzo Mignanelli, piazza Mignanelli 22

Valentino, senza cognome. Il cognome ce l’ha, è Garavani, ma l’ha lasciato a Voghera. Valentino è Roma. Perché? Perché non “Milano”? Perché a Milano non si celebrano i Re ma i manager: robetta.

Dice: ma a Milano ci sono i Grandi della Moda, i Maestri del made-in-Italy. Appunto. “I” grandi è di per sé una contraddizione: esclude Il Grande. “I” maestri, non ne parliamo: si dice “maestro” quando c’è un allievo, un seguace, tanti seguaci. Figuriamoci: chi può immaginare di essere un allievo di Valentino? E “made-in-Italy”, poi, parlando di haute couture, è come dire “aristocrazia democratica”.

Valentino è Roma. E’ la porpora del Papato, è la toga del Senatus Romanus, è l’assoluto decoro del Censo. È l’omaggio perenne alla grande sartorialità delle Sorelle Fontana, alla inarrivabile estetica dei tessuti di Lancetti… Forse il giovane Valentino ha scelto Roma per la sua stessa struttura dello sguardo: uno sguardo dotato per vedere-sentire-percepire-annusare e riconoscere il dandy in mezzo a milioni di mediocri snob. Perché a Milano l’estetica consiste nell’arrivare al successo. A Roma, non si arriva: si “è” già da prima di Cristo.

A Roma, Valentino – chissà? – ha vestito Rea Silvia, Messalina e Lucrezia. A Roma, a casa sua, è stata accolta in udienza-prova l’élite delle Femmine di Potere dei cinque Continenti. O qui, nel cuore di Roma, nei saloni di Palazzo Mignanelli, o sennò, prego, accomodarsi in una qualsiasi boutique dei commoners (comuni mortali) Westwood, Armani, Saint-Laurent, Dior ed altri democratici.

Ah, dimenticavo: Valentino è quello che non vedi in TV a fare ospitate o plebee interviste: Valentino non risponde a domande. È un Re di Roma. Se vuoi vederlo, vieni qui.

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