Successo al teatro veneziano La Fenice: applauditissima La Traviata di Giuseppe Verdi con la mirabile regia del mitico regista canadese Robert Carsen
«In quell’enorme zanzariera che è la valle del Po fra Parma e Mantova, doveva nascere il genio di Giuseppe Verdi, e Parma diventare la roccaforte dei verdiani». Scriveva Bruno Barilli nel suo indimenticabile libro Il Paese del Melodramma.
L’altra sera ho rivisto con piacere la Traviata di Giuseppe Verdi con la pregevole regia del settantenne Robert Carsen che la mise in scena 20 anni fa, proprio alla riapertura della Fenice che era stata devastata nel 1999 da un incendio doloso.
Questo inconsueto allestimento ci è sembrato, in qualche modo, un divertente omaggio al Plastic, la nota discoteca milanese, aprendo infatti il primo atto con un vortice di balli tangenti ai locali notturni dei nostri giorni, che ha piacevolmente travolto il pubblico del teatro veneziano sold out.
Nel 2004 alla prima della Fenice, questa regia non riscosse un unanime successo, al solito contestato dai melomani tradizionalisti, questa volta, con mia sorpresa, non ci sono stati fischi ma unanimi calorosi applausi.
Le critiche alle prime regie liriche di Giuseppe Verdi
Tutti noi ci siamo ritrovati comunque nella inimitabile magia operistica di Verdi da alcuni critici all’inizio tacciata di “wagnerismo” per il troppo protagonismo dell’orchestra. Anche se gl’insegnanti del Conservatorio di Milano dissero a suo tempo che egli non aveva attitudini per la musica e ch’egli non possedeva nessuna abilità. Verdi non aveva che del genio: troppo poco per dei professori e dei critici che a lungo avevano criticato le sue prime regie liriche. Poi hanno svoltato l’atteggiamento verso di lui, con una incondizionata esaltazione dell’ultimo Verdi, quello che, secondo il loro parere, “aveva imparato il mestiere”. Come in questa Traviata del 1853 su libretto di Giuseppe Maria Piave, tratto dal libro “La signora delle camelie” di Alexandre Dumas figlio. La sua prima rappresentazione assoluta andò in scena proprio a Venezia al Teatro La Fenice.
La Traviata torna a incantare il pubblico
«Il suo alito ha un sano odore di cipolla e la sua voce è imperiosa, i suoi istinti pieni di veemenza primitiva. E questo a molti disturbava». Perché, ci ricordava sempre Barilli, l’arte di Verdi è tutta sovvertimento, deformazione, caricatura sublime, e mette a fuoco i quattro canti della terra. E Carsen è stato molto bravo a immergerci in questo capolavoro sovvertendo le scene, ma rispettando il libretto, aiutato dall’impeccabile conduzione di Diego Matheuz, direttore apertamente innamorato di quest’opera ricca di contrasti drammaturgici fra le ragioni delle parigine convenzioni ufficiali e l’aspetto più intimo dei personaggi, Verdi ha nuovamente incantato tutti gli spettatori.
Grazie anche alla regia calibratissima di questo regista canadese sicuramente uno dei più conosciuti al mondo per la sua inimitabile capacità di reinterpretare l’opera senza tradirla. Anche grazie alle scene e costumi di Patrick Kimmonth e alla coreografia di Philippe Giraudeau che ci fanno vivere la vicenda in una sorta di travolgente locale notturno e poi in una magica foresta sommersa continuamente da banconote verdiane, quasi a simbolo di una vicenda che non ha tregua se non con la rottura degli equilibri famigliari, e fino a immergerci nell’aria tenebrosa, con tv anni settanta perennemente accesa in mezzo al palcoscenico, mentre la protagonista Violetta stremata muore fra le braccia di Alfredo Germont egregiamente interpretato dal tenore Francesco Demuro.
Violetta, alla Prima del 24 novembre, è portata in scena, con grande personalità e fascino, dal soprano Ekaterina Bakanova, in sostituzione, a causa di indisposizione, di Marina Monzò.
Il sovrintendente uscente Fortunato Ortombina:
«La Traviata è uno dei massimi capolavori verdiani»
Come ci ha ricordato il sovrintendente uscente Fortunato Ortombina, siamo di fronte a uno dei massimi capolavori verdiani. Con questa applauditissima ripresa ne celebra il ventennale e assume un forte valore simbolico. Ortombina sarà sovrintendente e direttore artistico del Teatro alla Scala dal primo marzo 2025.
Ma soprattutto ha colpito la presenza di cast di alto livello a cominciare dall’imponente Nicola Alaimo in scena nel ruolo del padre Giorgio Germont. Il baritono italiano per eccellenza, dà vita a questo catartico personaggio di estrema complessità, autentico protagonista dell’opera. Alaimo esprime la sua personalità attraverso un libero declamato, duttilissimo a seguire i moti dell’animo eppure mai povero di sostanza melodica.
Per non parlare di questa deliziosa super applaudita Violetta. Lei, secondo un divertente commento di Eugenio Montale, «canta come canterebbe la cornice di una specchiera seicentesca se l’opera di un orafo potesse aver voce».
«Il melodramma italiano è un’opera d’arte tutta speciale – costruita sul ciglio di un abisso di ridicolo, e pericolosamente inclinato, ci si sostiene a forza di genio: da un secolo, questo equilibrio prodigioso, si verifica. Oggi il Melodramma vive i suoi tardi giorni, pieno d’acciacchi. Sarà certo meno antico del Colosseo per esempio o della Torre di Pisa, ma è più vecchio, infinitamente più vecchio. Ebbene lo si tiri via dal suo letto. Lo si traduca nel cinematografo – lo si introduca sui rulli, trasmettiamolo attraverso l’elettricità».
«Robert Carsen continua ad affascinarci»
Queste famosissime considerazioni di Bruno Barilli mi sono subito tornate in mente alla fine di questa travolgente Traviata con la piacevole quanto riuscitissima regia controcorrente di Robert Carsen che ogni volta non smette di affascinarci, come a gennaio di quest’anno con l’Orontea di Antonio Cesti che abbiamo gustato al teatro La Scala col pubblico tradizionalista purtoppo in parte perplesso, perchè Carsen ambientò a Milano quest’opera del 1656 in una super abitazione contemporanea di un collezionista, con alle pareti quadri astratti alla Rothko e vista sul bosco verticale. Oppure con l’indimenticabile Edipo Re di Sofocle, visto al teatro greco di Siracusa nell’estate 2022 con la sua iconica mega scalinata.
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