Un bellissimo inconsueto Rigoletto ha debuttato a Venezia, il 7 febbraio, con la regia di Damiano Michieletto e la perfetta direzione di Daniele Callegari.
«Il melodramma italiano è un’opera d’arte tutta speciale… Costruita sul ciglio di un abisso di ridicolo, e pericolosamente inclinato, ci si sostiene a forza di genio. Da un secolo, questo equilibrio prodigioso, si verifica. Oggi il Melodramma vive i suoi tardi giorni, pieno d’acciacchi. Sarà certo meno antico del Colosseo, per esempio, o della Torre di Pisa… ma è più vecchio, infinitamente più vecchio. Ebbene lo si tiri via dal suo letto. Lo si traduca nel cinematografo – lo si introduca sui rulli, trasmettiamolo attraverso l’elettricità».
Queste famosissime considerazioni di Bruno Barilli contenute nel suo magnifico Il Paese del Melodramma, mi sono subito tornate in mente alla fine del Rigoletto con la piacevole quanto riuscita regia controcorrente di Damiano Michieletto, che ha appena debuttato in Prima Nazionale a Venezia, al Teatro La Fenice.
Questo genio delle regie del melodramma qual è Michieletto ha saputo reinterpretare il Rigoletto che, assieme alla Traviata, è sicuramente l’opera più celebre e popolare di Giuseppe Verdi. Lo stesso compositore la definiva il suo capolavoro. Perfetta nel rispettare le norme classiche: l’unità di azione, di tempo e di luogo.
Michieletto sottolinea che al centro di questo suo progetto sta il rapporto tra un padre e una figlia. Di tutti gli elementi che poteva evidenziare nel Rigoletto, ciò che ha scelto come motore di tutta la storia è la maledizione. Che, fra l’altro, era il titolo originale dell’opera verdiana, dal libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma “Le Roi s’amuse” di Victor Hugo.
La follia di Rigoletto
La maledizione si collega al fatto che Rigoletto scopre di essere involontariamente responsabile della morte della figlia. E dunque provoca in lui la follia. Rivive tutta la vicenda come un flashback. E rappresenta lui che ricorda con l’ossessione di una mente malata questa tragedia di cui si sente responsabile. Non riuscendo a liberarsi da questo senso di colpa Rigoletto diventa per così dire il buffone di se stesso.
Ma la vera novità di questo dramma, che debuttò con grande successo al Teatro La Fenice nel 1851, è tutta nel protagonista perfettamente impersonato dal celeberrimo Luca Salsi. Un baritono che Verdi aveva pensato senza romanze vere e proprie, ma con un declamato melodico che alterna l’invettiva all’implorazione, e che lascia all’interprete ampio raggio d’azione per esprimere al meglio il suo talento. E Salsi con il suo canto spiegato, molto robusto, ma anche con il suo sapiente impiego della mezzavoce ne ha saputo esaltare coerentemente le caratteristiche originarie pensate dal compositore.
La magnifica sede veneziana, dove ha debuttato questo Rigoletto, è stata di stimolo al regista per farci un inedito racconto che sfrutta anche le dinamiche cinematografiche, con uno schermo alle spalle della scena che proietta le riprese ravvicinate in bianco e nero del protagonista sanguinante steso a terra. Tutto ciò per farci meglio entrare nei dettagli della vicenda ultra-nota.
Ambientata in una sorta di manicomio dove Rigoletto è rinchiuso dopo che è diventato pazzo. E dove rivive la sua disperazione, in uno spazio bianco, mentale, non realistico. Un po’ come se ci trovassimo dentro la sua testa. Dove le pareti di mattoni si frammentano lasciando inaspettati varchi aperti da cui entrano il Duca e il Coro, (perfettamente diretto da Alfonso Caiani) che entrambi visualizzano al meglio le sue ossessioni mentali.
Atto II: applausi a scena aperta a Iván Ayon Rivas (il Duca di Mantova)
A un certo punto il Coro irrompe tutto mascherato cercando di rubargli la presunta amante e Rigoletto reagisce puntando un enorme lampadario contro tutti compreso noi spettatori. Nel II atto vediamo il letto issato in verticale a cui è aggrappato il Duca che declama “Ella mi fu rapita”. Applausi a scena aperta a Iván Ayon Rivas che lo impersona egregiamente.
Rigoletto è un bistrattato, deforme buffone alla corte di un Duca di Mantova, donnaiolo indefesso, narcisista incallito, che insedia sotto mentite spoglie l’unica figlia del buffone, Gilda, emblema della virtù, devotissima al padre. E lei alle avances del Duca ci casca come un’allocca, e ne rimane comunque ammaliata, anche quando scopre l’inganno, fino a sacrificarsi al posto suo, pur di salvare l’amato padre, sempre più inguaiato per avere pensato di vendicarsi dalla maledizione di Monterone, che gli viene scagliata contro da questa corte ostile cinica e competitiva, di cui Rigoletto fa comunque parte, e che lo vuole definitivamente mettere fuori gioco.
Bellissimo l’inevitabile tragico epilogo con il celeberrimo ultimo duetto tra Rigoletto e Gilda, con lui disperato che l’abbraccia come una bambola rotta, sommersa da innumerevoli fiori coloratissimi.
E appaiono i video, sempre in bianco e nero, dell’infanzia dell’adorata Gilda “il mio universo è in te”… E i suoi deliziosi disegni colorati d’infanzia con l’assolo di Rigoletto: “dove l’hanno nascosta? […] Pietà signori, pietà”.
Super applausi dal pubblico a Rigoletto con urla ripetute: “Bravo!”.
Scomposizioni temporali che meglio ci fanno entrare nel plot narrativo con efficaci citazioni cinematografiche dei nostri film d’epoca. La frammentazione della trama è dipanata dentro una scena contemporanea fissa, ideata da Paolo Fantin.
L’eccellente direzione di Daniele Callegari
Tutto questo Rigoletto, diretto magistralmente da Daniele Callegari, grande esperto verdiano, ci rivela che adora in particolare il meraviglioso duetto Sparafucile-Rigoletto, dove violoncello e contrabasso all’unisono sono accompagnati dalle viole e dai violoncelli senza i primi e i secondi violini. La sua direzione ha naturalmente incantato il folto pubblico, veneziano, misto, come sempre a tanti turisti stranieri.
«In quella enorme zanzariera che è la valle del Po fra Parma e Mantova doveva nascere il genio di Giuseppe Verdi, e Parma la roccaforte dei verdiani. Gli insegnanti del Conservatorio di Milano dissero che egli non aveva attitudini per la musica e ch’egli non possedeva nessuna abilità…
E invece non aveva che del genio: troppo poco per dei professori e dei critici.
L’arte di Verdi è tutta sovvertimento, deformazione, caricatura sublime, mette a fuoco i quattro canti della terra. Verdi divora le scorciatoie più impensate, sempre fugace e irraggiungibile per colmo di forza e di impeto. Verdi tira avanti senza circonlocuzioni… con un colpo di spalla butta giù le porte, calpesta la legge, i divieti e, in cambio, appaga l’istinto».
Queste ulteriori considerazioni dell’inarrivabile Barilli sembrano scritte apposta per invogliare il regista a scardinare le consuetudini care ai melomani per trovare altre chiavi narrative di sapore più contemporaneo. Senza però stravolgere il libretto e con un cast d’eccezione che ha saputo incantare gli spettatori con le sue maestrie canore. A cominciare da Gilda, restituitaci in maniera esemplare dalla soprano Rosa Feola, ideale controcanto alla voce più buia del dolorante Rigoletto.
Brava anche la Maddalena restituitaci egregiamente da Marina Comparato, come Sparafucile interpretato ottimamente da Mattia Denti. Il ruolo del Duca di Mantova, personaggio che Verdi immaginava frivolo, cinico e gaudente era perfettamente interpretato da Iván Ayon Rivas, con i costumi un po’ mafiosetti, anni ’80, pensati dal bravissimo Agostino Cavalca.
“La donna è mobile”
E quando il Duca declama la celeberrima “La donna è mobile” corteggiando un’altra dama anziché Gilda, che inevitabilmente soffre di come si comporta questo farfallone, il pubblico esplode in lunghissimi fragorosi applausi.
Il pubblico ha seguito quest’opera senza i soliti “buu…” che purtroppo mi capita di sentire quando la regia non è immobilizzata dalla tradizione, come ebbi modo di verificare invece al comunale di Bologna qualche anno fa in occasione di uno straordinario Trovatore con la regia del grandissimo Bob Wilson, in maniera imbarazzante platealmente contestato perché non aveva rispettato le consuetudini dei melomani.
Questa volta ho visto con piacere che l’intelligente regia di Michieletto ha saputo comunque catturare il pubblico incantandolo con immaginari inediti ed efficacissimi.
Grande prosieguo di Stagione quella pensata da Fortunato Ortombina, ora alla Scala, sostituito da Nicola Colabianchi. In replica a La Fenice fino al 2 marzo. Questo spettacolo di Michieletto meriterebbe auspicabili tournée anche internazionali.
Dopo la Prima del 7 febbraio e le repliche dell’11 e di ieri (14), il Rigoletto replicherà anche nei giorni 16/19/23/25/28 febbraio e il 2 marzo.
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