Arcangelo Sassolino opera 01

Intervista ad Arcangelo Sassolino al Lerici Music Festival: arte, scultura sonora e trasformazione della materia in un percorso creativo unico

Abbiamo incontrato l’artista Arcangelo Sassolino a inizio agosto durante il Lerici Music Festival. Qui esponeva una grande personale dei suoi lavori. Tutti caratterizzati dall’essere vicino al limite della rottura. La filosofia artistica: “L’artista deve essere un traditore seriale di se stesso”.

«Credo che l’artista debba essere un traditore seriale di se stesso», afferma Arcangelo Sassolino. «Nella mia esperienza ogni quattro anni c’è un cambio di passo. Si esaurisce una stagione e ne inizia un’altra».

È stato l’artista del Padiglione di Malta a Venezia, per la Biennale d’Arte 2022. Un magnifico omaggio alle atmosfere del dipinto “La decollazione di san Giovanni Battista” che il Merisi realizzò proprio a Malta.

«L’installazione che avevo creato per il Padiglione di Malta è nata da un felice dialogo. Fra me e i curatori del Padiglione, Jeffrey Uslip e Keith Sciberras, esperto di Caravaggio. Partendo dal capolavoro di Caravaggio, la “Decollazione di san Giovanni Battista” del 1608, conservata nell’Oratorio della Concattedrale di San Giovanni a Valletta abbiamo fatto questa relazione fra geografia e storia. Quello è diventato l’aggancio per la mia installazione per il Padiglione.
A me interessava fondere l’acciaio, che per me è la spina dorsale delle nostre vite. Quello che cerco di catturare è l’istante del cambiamento di stato. L’attimo in cui qualcosa sta diventando qualcos’altro. L’idea che mi ha mosso è stata quella di liberare il metallo da quella forma chiusa. Di portarne a esposizione la sua origine liquida, impalpabile, luminosa».

Il tempo nella scultura: dalla staticità al movimento

«Sciogliendolo, il metallo non è più solo e semplicemente un presente statico. Non è più solo qualcosa che c’è e che in questo esserci rimane identico a se stesso. Ma si fa tempo, si dilata dentro una dimensione cronologica di apparizione e scomparsa.
Le gocce incandescenti a 1.500 gradi cadono e spariscono dentro l’oscurità. Raffreddandosi dentro all’acqua. Questa impalpabilità, questa impossibilità di trattenere, questo rendere l’acciaio liquido era in qualche modo aggiungere la componente del tempo al mio lavoro. Questo tipo di luce che fa solamente il metallo quando fonde, questa luce nitida, viva, spero sia il miglior tributo al genio di Caravaggio».
Arcangelo Sassolino sintetizza la sua poetica con «ho un sentimento del perimetro che non si risolve». Lo abbiamo incontrato durante la sua personale, appena conclusa a inizio agosto. Esposta a Villa Marigola a Lerici nell’ambito del Lerici Music Festival.

Il Festival e le collaborazioni d’eccellenza

Anche quest’anno, il prezioso Festival giustamente connette Concerti di musica classica di grande qualità a eventi d’arte contemporanea. In collaborazione con Galleria Continua di San Gimignano. Sicuramente una delle più autorevoli Gallerie d’Italia.
Quindi dopo la personale del cubano Carlos Garaicoa Manso (sempre curata da loro) che caratterizzò l’edizione 2024 quest’anno siamo stati immersi nella poetica di questo artista vicentino. Che ormai è sicuramente uno dei più apprezzati artisti contemporanei nel mondo. Non a caso ha appena inaugurato anche in Australia una sua grande mostra.

Arcangelo Sassolino, può raccontarci la sua formazione?

Ho un percorso sicuramente non molto canonico. Mi ricordo che da sempre, fin da bambino, andavo nel garage di casa e lavoravo con le mani. La gioia di incontrare i materiali e pensare al mondo in forma tridimensionale mi pervadeva. Io non disegno mai, penso alle cose come a un fluido tridimensionale.
Per molti anni non ho saputo che cosa farmene di questo modo di guardare le cose. Questo mio rapporto col mondo ha poi seguito un percorso inusuale. A un certo punto mi sono iscritto a ingegneria meccanica a Padova. Ma nel frattempo volevo brevettare un nuovo freno per le macchine o un giocattolo. Ho brevettato il secondo.
È stata la mia fortuna perché lo mandai negli Stati Uniti e da lì nacque la possibilità di fare uno stage a New York. Con un’agenzia specializzata in giochi e giocattoli. Lo stage sarebbe dovuto durare tre mesi e, invece, rimasi quasi sei anni.
Dopo un paio d’anni che ero a New York andai alla retrospettiva di Matisse al MoMA. E quella mostra cambiò letteralmente la mia vita. Tutto divenne chiaro. Una settimana dopo mi iscrissi alla School of Visual Arts. E quello è stato l’inizio.
Sono tornato in Italia e ho vissuto per un paio d’anni tra Pietrasanta e Carrara per lavorare il marmo. In qualche modo mi sono riappropriato di quella classicità che abbiamo in Italia. E che è più difficile da trovare in un’Accademia americana.

Nel suo lavoro si notano varie e differenti fasi di ricerca. Come si potrebbero definire questi diversi capitoli della sua poetica artistica?

Nella mia esperienza ogni quattro anni c’è un cambio di passo. Si esaurisce una stagione e ne inizia un’altra. Credo che l’artista debba essere un traditore seriale di sé stesso. I propri lavori, dopo un po’, possono diventare una zavorra da cui bisogna svincolarsi in continuazione.
Per questo ho bisogno di andare avanti, continuo sempre a fare ricerca. Continuo a sperimentare, vado sempre volentieri incontro alla scoperta di nuove possibilità.

L’uso del legno nella sua opera è ricorrente. È anche qui a Villa Marigola è una delle tue opere più caratteristiche. Perché la scelta di questo materiale e quale valore simbolico-concettuale gli attribuisce?

Siamo in un momento in cui la scienza, la fisica, la medicina, cercano di scoprire sempre più a fondo l’interno delle molecole. Vanno dentro al Dna. Allo stesso modo andare dentro alle fibre della sostanza, indagare il materiale dal suo interno, è per me una possibilità nuova per la scultura.
Nello specifico del lavoro con la trave di legno anziché destinare quel legno a un qualche tetto di una villetta in montagna, mi piace pensare che sottoponendolo alla spinta micidiale di un pistone idraulico abbia, sebbene morto, un’ultima possibilità di “cantare”.
In effetti il suono è una componente importante, spesso intrinseca alle sue sculture. Come quella che ci accoglie all’esterno di Villa Marigola che emette suoni roboanti tramite una pompa. Che introduce ed espelle l’aria ad un enorme manufatto di metallo producendo un inconsueto concerto.

Come lo fai percepire agli spettatori?

Il suono è importantissimo in alcuni dei miei lavori, come in quello che tu hai raccontato. Ma non è la prima cosa che cerco. È chiaro che quando agisci in un certo modo su un materiale, applichi certe azioni, sai già che automaticamente ne uscirà qualcosa. Lo accetto a prescindere, lascio che diventi parte del lavoro.
Quando abbiamo presentato il pistone negli Stati Uniti, che ritrovate anche in una delle sale di Villa Marigola, avevano portato al museo dei ceppi di legno di pioppo appena tagliato. Quando il pistone cominciava a spingere contro la trave, oltre al suono prodotto dal cedimento delle fibre, la trave letteralmente piangeva. La pressione esercitata sul legno faceva rilasciare la linfa e tutta l’acqua che aveva dentro.
Vedendo questo pianto, ho avuto l’ispirazione per esporla anche a questo bellissimo Lerici Music Festival diretto egregiamente da Margherita Amirkhanian, grande Collezionista che assieme direttore Responsabile Intermedialità Carlo Orsini e al Maestro Gianluca Marcianò, Direttore Artistico Lerici Music Festival Ha ideato questo piacevolissimo Festival.

Lei vive e lavora in Veneto, a Trissino. Perché questa scelta, in un certo senso controcorrente al «diktat» per gli artisti di trasferirsi all’estero o comunque nelle grandi città per avere più possibilità, visibilità e contatti?

Il territorio dove lavoro per me è fondamentale per due ragioni. La prima è di carattere estetico. Nella zona in cui lavoro vige un totale delirio urbanistico. Ha preso il sopravvento su qualsiasi forma di pianificazione un’anarchia creativa dominante che ha massacrato il territorio.
Un fluire di capannoni e case di ogni genere, forma e colore punteggiati da segnaletica e cartellonista pop assurda. Rotonde dai contenuti improbabili, lavori in corso ovunque a singhiozzo. Il bello è spesso mimetizzato dalla frenesia di qualche geometra locale.
È quella che mi piace chiamare un’estetica a schegge che si confà molto alla mia ricerca. Per me è un humus ideale per creare i miei lavori.
Il secondo motivo che mi lega al territorio è dovuto a un’esigenza tecnologia data dalla mia ricerca. Il territorio è costellato da una quantità straordinaria di aziende che sono eccellenze in tutto il mondo per la qualità dei loro prodotti nei settori più svariati. In altre parole posso trovare tutto quello di cui ho bisogno.
A volte mi chiedono perché non ho uno studio a Berlino e io rispondo che quando esco dal mio studio nel giro di 100 metri trovo tre tagli laser e cinque tornerie di precisione.
A Berlino dovrei guidare almeno un’ora.

Sergio Buttiglieri
Sergio Buttiglieri*************

Puoi seguire qui altri articoli di Sergio Buttiglieri:
Articolo precedenteGiornata Mondiale del Cane: un legame che arricchisce la vita
Articolo successivoRifugio San Lucio: cuore della Presolana