Una delle materie più dibattute in modo continuo nel tempo è stata quella del diritto fallimentare che qui in Italia, a torto o a ragione, è sempre stato estremamente punitivo e tendente ad apporre un marchio indelebile sull’imprenditore che ne è stato oggetto. In altri Paesi, come ad esempio negli USA, la materia fallimentare è estremamente blanda e il fallimento è semplicemente un possibile inciampo nel percorso imprenditoriale. Basti pensare che diverse società controllate dall’ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump dal 1991 ad oggi hanno dichiarato fallimento in ben 4 diverse occasioni. Nel nostro Paese con la riforma del fallimento attraverso il nuovo Codice della crisi d’impresa (C.C.I) e dell’insolvenza si è avuta una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto alla legge fallimentare in vigore fino dal 1942. L’obiettivo della nuova legge era quello di creare le condizioni affinché l’imprenditore potesse avviare le procedure di ristrutturazione preventivamente e quindi evitare che la crisi diventasse irreversibile. Le norme contenute rendono più semplici le regole processuali, riducendo le incertezze interpretative ed applicative. In particolare: si è dato priorità di trattazione alle proposte che assicurano la continuità aziendale; si è uniformato e semplificato la disciplina dei diversi riti speciali previsti dalle disposizioni in materia concorsuale; si è prevista la riduzione della durata e dei costi delle procedure concorsuali. Quale ultimo punto dovrebbe scomparire anche il termine “fallimento” sostituito con la “liquidazione giudiziale”. Significa che le aziende e gli imprenditori non saranno più definiti dei “falliti” ma semplicemente attraverseranno dei periodi di crisi più o meno lunghi e più o meno irreversibili. In questo contesto di riforma non addivenuta ancora ad una completa attuazione e passibile di ulteriori aggiustamenti, come spesso accade, è la Giurisprudenza ad apportare le prime correzioni fattuali. È infatti una recentissima sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite dello scorso mese di febbraio ad essersi pronunciata sulla ammissibilità dell’istanza di fallimento nei confronti di una società già ammessa al concordato preventivo poi omologato, a prescindere dall’intervenuta risoluzione del concordato. Mi rendo conto che è un aspetto particolarmente tecnico ma, in sostanza, una parte della dottrina si poneva il problema che una volta accettato il concordato ove il debitore non rispettasse i pagamenti previsti nel concordato medesimo (cioè si rendesse inadempiente anche nei confronti della procedura concordataria) non potesse essere dichiarata fallita senza la previa risoluzione del concordato medesimo, e ciò con l’intuibile risvolto dell’allungamento dei tempi processuali e l’inevitabile incremento dei costi per i creditori. Sul punto nel tempo si erano infatti registrate opinioni contrapposte ma con tale sentenza non vi è dubbio che il creditore insoddisfatto o lo stesso P.M. possano autonomamente avanzare istanza di fallimento a prescindere dall’intervenuta risoluzione del concordato.
* Prof. Avv. Antonello Martinez
Studio Legale Associato
Martinez & Novebaci
Milano – Via Archimede n° 56
www.martinez-novebaci.it
Tratto da “Finanza&Futuro”
24orenews.it Magazine Marzo 2022
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